LANDHAUS
Darker City Lights
Etichetta: autoprodotto
Anno: 2010
Durata: 59 min
Genere: indie rock con influenze grunge
Dietro al progetto Landhaus troviamo un nome, quello di Matteo Landò,
compositore, cantante e chitarrista per quest'album dalle coordinate
più vicine all'indie rock che a quello che normalmente trovate
recensito su queste pagine. Non ho tantissime informazioni biografiche
al riguardo e non ho trovato nemmeno un sito ufficiale per informarmi
meglio: quello che posso dirvi è che, oltre a Matteo, nell'album
suonano anche Stefano Spina, che oltre a suonare il basso ha curato
registrazione e arrangiamenti, e il batterista Niky Collu. Infine
alcuni brani vengono impreziositi dalla presenza di due ospiti: il
chitarrista Lorenzo Corti (qui alla slide guitar), che conosco per le
sue collaborazioni con Ivano Fossati, Cesare Basile e Cristina Donà, e
Sergio Conforti al pianoforte che, a meno di un caso di omonimia, altri
non è che il buon vecchio Rocco Tanica di Elio e Le Storie Tese.
Bene, questa è la carta d'identità del gruppo, ma la musica? Bè, come
dicevo qui di metal non ce n'è, c'è dell'indie, del grunge molto
leggero, c'è un pizzico di brit, ma se cercate metal, lasciate perdere.
Personalmente metal o no, poco importa, basta che sia buona musica e
devo dire che Landò ha creato un buon lavoro, affascinante e curato in
diversi passaggi, sebbene un po' prolisso sulla lunga distanza. Se la
prima metà dell'album passa con fluidità, facendosi apprezzare per gli
arrangiamenti, la scrittura e le atmosfere, lo stesso non si può dire
nella seconda parte, dove manca un po' di mordente e lascia spazio a
qualche sbuffo non esattamente entusiastico.
Per dire, l'apertura affidata a "Number One" funziona, rispecchiando
perfettamente quei concetti espressi anche dal titolo: un rock
notturno, piuttosto malinconico, urbano, che parte con una chitarra
arpeggiata, ma poi si sveglia in momenti più elettrici nella sezione
centrale, per convergere infine in un buon momento acustico. Ancora più
intima e malinconica "All Waving", delicatamente ricamata con il
pianoforte di Conforti e poco importa se la voce di Matteo Landò nel
ritornello sembra cercare, senza troppo successo, di fare il verso a
Chris Martin dei Coldplay.
Si continua con "Let Me Know", dove prende il sopravvento la chitarra
acustica; "Inside Out", che invece gioca su un rock minimale e più
arioso; e l'ottima "Sunday Morning", delicata e triste ballata
ottimamente composta pur nella sua classicità.
Da qui l'interesse cala, anche a causa di scelte stilistiche poco
azzeccate: per esempio "Sliding Well" cerca di spingere
sull'acceleratore, ma le chitarre distorte sono smorte in una maniera
quasi imbarazzante; "What's Wrong", parte bene, ma anche qui quando si
cerca la scarica di adrenalina l'intento fallisce e il brano si arena
sui suoi lunghi sei minuti di durata. Stesso discorso anche per la
conclusiva "Why Should I Care?", che alza la durata a sette minuti e
ancora il tutto risulta troppo diluito, dispersivo e privo di mordente.
Molto meglio gli altri due episodi che non ho citato, "Maybe" e "We
Wanted", dove Landò rientra nelle coordinate musicali che gli riescono
meglio, ovvero quelle più riflessive ed intime.
A conti fatti, quindi, abbiamo a che fare con un buon lavoro, ma ci
sono ancora diversi spigoli da smussare, scelte da rivedere e punti di
forza da sviluppare meglio. Per ora, comunque, abbiamo un buon
biglietto da visita che ci dice abbastanza per voler tenere d'occhio
questo promettente progetto.
(Danny Boodman - Giugno 2010)
Voto: 7