ALLEY
The Weed

Etichetta: Bad Mood Man Records
Anno: 2009
Durata: 60 min
Genere: progressive death metal


Generalmente il sottoscritto è uno di quelli che continua a menarla su quanto sia importante avere una personalità propria nella musica, di quanto l'originalità sia difficile da raggiungere ma al tempo stesso da tenere sempre presente come obbiettivo, di non fossilizzarsi su schemi precostituiti e via dicendo. D'altra parte, come sempre, il mondo non è tutto bianco e nero e quindi ci sono infinite sfumature di grigio che vanno prese in considerazione. Prendiamo gli Alley, una giovane band russa al primo album che suona esattamente come i vecchi Opeth. Come premessa questa non mi farebbe entusiasmare, perchè i vecchi album degli Opeth li ho già e non mi interessano i cloni, eppure questi ragazzi mi hanno convinto. Sarà perché, comunque, prendere spunto (anche pesantemente) dalla band di Mikael Åkerfeldt vuol dire rifarsi ad uno stile relativamente giovane, che ha avuto la sua esplosione già nel nuovo millennio. Insomma, non è il milionesimo tentativo di rifare un "Keeper Of The Seven Keys", un "British Steel" o un "The Number Of The Beast". Gli Opeth sono ormai dei classici ed è quindi naturale che inizino ad uscire parecchie band cresciute con i loro album. Insomma, sono troppo pochi i cloni della band svedese per essere già venuti a noia. Almeno per me.
Oltretutto un disco come "The Weed" ha ancora più senso adesso che gli Opeth stessi hanno preso una piega non meno interessante che in passato, ma di certo diversa, con una maggiore attenzione alla componente progressive, trame sempre più intricate e pulite, chirurgiche e ammalianti, ma meno legate a quella spontaneità e a quell'alone di mistero che avvolge un "Morningrise".
Bene, gli Alley portano avanti proprio quel percorso, mantenendo le classiche coordinate sonore degli Opeth, ma prediligendo il lato atmosferico piuttosto che l'attento cesellare di un arazzo complesso e articolato. Abbiamo così una lunga introduzione ambient, "Duhkha", che ci introduce con lentezza al primo vero brano, "Coldness". Come immaginerete c'è poco che io possa dire che un fan degli Opeth non sappia già: momenti acustici ed intimisti si intervallano con assalti death metal, mentre la voce di Andrey Evtugin (molto simile a quella di Åkerfeldt) ringhia con foga demoniaca. Le atmosfere sono molto cupe, ma ancora siamo nella fase più 'immediata' con un brano di soli cinque minuti di durata.
Già con "Dust Layer", invece, si inizia a fare sul serio salendo a nove minuti. Anche in questo caso non siamo di fronte all'episodio più nero di "The Weed", ma la scrittura si fa più articolata, rendendo più dinamico il tutto tra rallentamenti e momenti più lineari e melodici.
Dopo un brano in linea con quanto detto finora, "Hessian Of Rime", si arriva al trittico più lungo del CD, con tre composizioni tutte al di sopra dei dieci minuti di durata. "Fading Fall" inizia con un forte impeto death, ma gioca con grande abilità anche la carta della malinconia delle voci pulite e delle chitarre acustiche. Anche questo aspetto è facilmente sovrapponibile con la doppia anima degli Opeth, ma resta il fatto che la qualità del songwriting è decisamente elevata. La stessa qualità si nota anche in "Jaded Mirrored", che si dipana con eleganza, riuscendo comunque ad aumentare proprio quell'aura spettrale che rende affascinanti queste lunghe composizioni. Chiude il lavoro "Days For Gray" con i suoi quattordici minuti in cui vengono ripresi tutti i pregi del gruppo, tra sfuriate elettriche, carezze acustiche e lugubri rallentamenti dal sapore doom.
Insomma, come ho già detto non c'è una nota originale per tutta la durata del CD, ma per questa volta chiudiamo un occhio e godiamoci le ottime qualità compositive, vista anche l'attenuante dell'inesperienza. Adesso però, cari Alley, rimboccatevi le maniche, perchè un secondo album identico a questo non avrà più lo stesso trattamento di favore!
(Danny Boodman - Aprile 2009)

Voto: 8


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